Cracking Art: Rigeneriamo la plastica per trasformarla in arte. Francesco insegna l'amicizi tra uomo e natura
Kicco, esponente del gruppo Cracking Art, racconta l’impegno sociale e ambientale del movimento artistico attivo da 25 anni.
Kicco è un fiume in piena. Racconta la missione del suo movimento artistico con l’entusiasmo e la foga di chi morde la vita per creare arte. Instancabili, gli artisti di Cracking Art, lo sono da 25 anni: «Abbiamo deciso di unire le forze nel 1993, e proprio in questi gironi ci apprestiamo a celebrare questo importante traguardo con lo sguardo rivolto sempre al futuro». Rigenerare la plastica è la loro missione: «Lo facciamo per sottrarla alla distruzione tossica e devastante che danneggia l’ambiente, e per darle una nuova vita, una nuova forma».
E per farlo avete scelto un linguaggio fortemente estetico, ma di rottura. “To crack”, appunto.
«Il nostro nome deriva dal gergo petrolchimico, precisamente dal passaggio in cui il petrolio grezzo attraverso il processo del cracking catalitico si trasforma in virgin-nafta, dalla quale successivamente nascono un’infinità di prodotti tra cui la plastica. Lo abbiamo scelto perché rappresenta la fase di separazione – oggi sempre più netta – tra la vita naturale e quella artificiale. Cracking è l’azione che trasforma il naturale in artificiale, l’organico in sintetico. Una scissione che ci mette tutti davanti a realtà nuove».
La plastica, la materia più demonizzata.
«La plastica è il materiale contemporaneo più diffuso, ché viene utilizzato in ogni settore della vita, riuscendo a entrare perfino nei nostri corpi. Abbiamo voluto ricreare questo nuovo universo attraverso la plastica e la rappresentazione di animali colorati e fuori scala».
E ogni animale è portatore di un messaggio.
«Proprio così. Il primo in assoluto è stato il delfino. Siamo da sempre sensibili al discorso che la plastica abbandonata possa produrre i danni che ormai tutti ben conosciamo. Il delfino era il simbolo ideale perché se incontra in mare una bottiglia di plastica la ingerisce e può soffocarsi. Per la nostra primissima installazione – nata dalla collaborazione con il consorzio Replastic, che sensibilizza al recupero dei materiali – abbiamo realizzato centinaia di delfini dorati. Il delfino altro non rappresenta che la natura in pericolo davanti alla plastica. Nel corso degli anni, però, abbiamo dato forma ad altre figure. Quella più nota è indubbiamente la chiocciola, che nel nostro immaginario rappresenta la rigenerazione».
La rigenerazione?
«Sì, perché la sua bava viene impiegata per rigenerare la pelle dell’uomo. A noi piace pensare che il passaggio della chiocciola possa produrre una scia di miglioramento».
Un’altra importante cifra stilistica di Cracking Art è il suricato.
«Questo piccolo animale vive in gruppo, così come noi che collaboriamo insieme per sopravvivere. Oltre a essere molto simpatico, il suricato ha una forte predisposizione all’unione che fa la forza.
Cracking Art nasce nel 1993 da un gruppo di artisti che hanno abbandonato le idee personali e il nome proprio per far branco e confluire in un progetto comune».
A proposito di branco, tra i tanti vedo anche il lupo.
«Perché il lupo è una figura quasi sospesa tra la sua natura selvatica e primordiale e quella domestica rappresentata dal cane, che è da sempre considerato il miglior amico dell’uomo. L’incontro tra l’uomo e il lupo può apparentemente provocare spavento e tensione, come il rapporto in bilico tra l’uomo e la natura, l’amore e la paura. Ma la storia di Francesco d’Assisi, per esempio, ci insegna che dall’incontro tra l’uomo e la natura può nascere un’amicizia. Non serve allarmarsi davanti all’arrivo del diverso, ma trovare il modo per essere amici. Basta tenere una mano, trovare i modi per convivere e riappacificarsi e vivere in armonia».
Cracking Art può essere considerata avanguardia?
«Sai, questa parola mi spaventa sempre un po’ perché paragonarsi alle avanguardie artistiche che hanno consegnato alla storia opere immense è un po’ imbarazzante. Sicuramente, però, siamo stati d’avanguardia nel 1993, riuscendo ad agganciare al messaggio artistico l’utilizzo di un materiale per puro intento ecologico. Oltretutto non abbiamo mai puntato ai musei e alle gallerie, ma ai luoghi non deputati dove l’arte non era ancora arrivata. Ecco, forse un po’ di avanguardia nella scelta di scardinare gli schemi prefissati c’è».
Un’espressione di rottura che dà visibilità a quel che sembra invisibile?
«Hai c’entrato in pieno uno dei punti di forza della nostra missione. In Italia siamo spesso assuefatti, abituati a convivere con bellezze senza la consapevolezza di quel che abbiamo attorno. Installare questi intrusi sui balconi e sui palazzi vuol dire prima di tutto richiamare l’attenzione su un luogo».
Una provocazione nonviolenta?
«Non siamo mai stati favorevoli alla provocazione. Non bisogna mai perdere di vista il rispetto del luogo. Noi siamo ospiti, e in quanto tali vogliamo conoscerlo e valorizzarlo. Proprio per questo nel 2012 abbiamo avviato il progetto “L'arte rigenera l’arte” che ha avuto un immediato successo».
Ovvero?
«Durante le istallazioni, mettiamo a disposizione una serie di piccole sculture che vengono vendute a prezzi simbolici. I fondi racconti saranno destinati alle operazioni di restauro di monumenti e alla creazione di borse di studio legate al territorio».
25 anni di Cracking Art. Ma anche 50 dal 1968, momento deflagrante anche in campo artistico. Cos’è oggi la rivolta nell’arte?
«Quelle tensioni molto forti si sono smorzate. Non vedo grandi rivoluzioni in vista, se non quella che ci offre la tecnologia. Rivolta oggi è
stare in mezzo alle persone, creare un’empatia diretta, non mediata da uno schermo. Ecco, questo per me oggi rappresenta il dissenso anche nell’arte».
L’arte è ancora politica.
«C’è una sorta di violenza nel nome da noi scelto, che in realtà sprona a prendere le distanze dalle banalità a cui spesso ci adattiamo. Il messaggio etico, politico se vuoi, è alla base di ogni cosa che si fa, perché crea confronto su temi che possono essere compresi e diffusi in maniera universale».
Cracking Art è Pop senza intingere all’archivio della Pop-Art.
«Siamo Pop Art ma anche Arte Pop. Non prendiamo dalla pubblicità, come hanno fatto gli artisti della Pop Art, ma puntiamo a elementi comuni come quelli della natura per creare delle piccole favole contemporanee. Ci ritroviamo così, ormai da 25 anni, spesso proiettati in mondi onirici fatti da gioco e armonia. La nostra “invasione animale” arriva a tutti in maniera semplice, riuscendo a connettere tutto con tutti: ambienti e arte, arte e persone».
L’arte però è anche disubbidienza e ribellione. Avrete sicuramente un luogo che vi piacerebbe invadere.
«Ci sono molti luoghi che ci hanno negato l’accesso poiché riservati alle grandi decisioni del mondo politico. Fare un’istallazione all’interno di un G8 o di un G8 Ambiente, veicolando messaggi importanti, sarebbe il massimo».
Quale messaggio portereste al G8?
«Al temine delle nostre istallazioni, tritiamo le sculture per produrre nuove opere. C’è per tutto un’inizio e una fine, e all’interno di questo passaggio ci si può rigenerare più volte, riuscendo anche a cambiare perfino le proprie visioni. Il messaggio è indubbiamente questo».
Quasi a dire che l’arte contemporanea non si preserva ma si autodistrugge per vivere più vite?
«Esattamente. Dobbiamo trasmettere messaggi che si diffondono e si impollinano come polvere. L’arte deve essere sempre pronta a farsi tritare per rigenerare qualcosa di bello e di eterno».
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